Rivoluzionari
e revisionisti
Marx
pensava che la rivoluzione comunista sarebbe avvenuta nei paesi più sviluppati
d’Europa, dove il capitalismo era già molto avanzato. Credeva che l’uso
crescente delle macchine e la disoccupazione tra i lavoratori avrebbero portato
alla crisi del sistema. Per questo studiò con attenzione l’Inghilterra, che
nell’Ottocento era il paese industriale più avanzato. Tuttavia, le cose non
andarono come previsto: l’Inghilterra fu uno dei paesi meno influenzati dal
marxismo.
La
prima grande rivoluzione comunista, guidata da Lenin nel 1917, avvenne in
Russia, un paese arretrato e prevalentemente agricolo. Un’altra rivoluzione
comunista importante si verificò nel 1949 in Cina, sotto la guida di Mao
Tse-tung, in un contesto rurale e povero. Nel Novecento, il marxismo si diffuse
soprattutto in paesi meno industrializzati, come Russia, Cina e Cuba,
diventando una forza politica oltre che teorica.
In
Europa, il marxismo si sviluppò dopo la morte di Marx ed Engels, legandosi alla
storia del movimento operaio e dei partiti socialisti e comunisti. Un momento
chiave fu la “Seconda Internazionale”, fondata a Parigi nel 1889 per coordinare
i movimenti operai. A differenza della “Prima Internazionale”, dominata da
conflitti tra marxisti e anarchici, la Seconda Internazionale fu guidata dal
socialismo marxista. Qui si discusse tra due correnti: i “rivoluzionari”,
favorevoli alla rivoluzione per instaurare il comunismo, e i “revisionisti”,
che proponevano di trasformare la società con riforme graduali.
I
protagonisti della “Seconda internazionale”
Karl
Kautsky (1854-1939), di Praga, fu una figura importante nel dibattito politico
del suo tempo. Fu lui a scrivere il programma del Partito socialdemocratico
tedesco a Erfurt nel 1891, che ebbe un forte impatto sulle idee della
socialdemocrazia in Europa. Kautsky proponeva una strategia che puntava a
indebolire gradualmente il capitalismo e trasformare lo Stato borghese in uno
Stato socialista. La sua posizione era a metà strada tra chi voleva cambiare le
cose con riforme graduali (i revisionisti) e chi voleva una rivoluzione
immediata (i rivoluzionari).
Da
una parte, Kautsky condivideva con i rivoluzionari l’idea di Marx che la
società borghese fosse destinata a crollare e che una rivoluzione fosse
necessaria per arrivare a una società senza classi. Questo era il “programma
massimo”, l’obiettivo più grande dei socialisti, da cui deriva il termine
“massimalismo”. Dall’altra parte, però, riconosceva anche la necessità di
perseguire obiettivi più immediati, come la riduzione dell’orario di lavoro, il
diritto di voto per tutti (compreso per le donne), l’uguaglianza tra uomo e
donna, una tassazione più giusta, l’istruzione pubblica e leggi sociali. Questi
obiettivi più piccoli e realizzabili attraverso riforme erano chiamati il
“programma minimo”, da cui il termine “minimalismo”.
Un’altra
figura importante di questo dibattito fu Eduard Bernstein (1850-1932), un
socialdemocratico tedesco che proponeva una revisione delle idee di Marx.
Secondo Bernstein, il capitalismo non era destinato a crollare come previsto da
Marx, perché era riuscito a superare le sue crisi. Nel suo libro I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899),
Bernstein sosteneva che era meglio abbandonare l’idea di una rivoluzione
violenta e puntare su cambiamenti graduali, utilizzando la democrazia per combattere
il potere autoritario e migliorare la società.
La
visione politica di Lenin
Lenin
(1870-1924), il leader russo il cui vero nome era Vladimir Il’ic Ul’janov,
sosteneva che il proletariato potesse rovesciare lo Stato borghese solo
attraverso una rivoluzione violenta. Secondo lui, lo Stato borghese e le sue
istituzioni dovevano essere distrutti.
Durante
il passaggio al socialismo, Lenin riteneva che lo Stato fosse ancora
necessario, ma che gradualmente dovesse perdere importanza. Ad esempio, i
funzionari statali avrebbero dovuto svolgere solo compiti specifici, essendo
sempre sostituibili. Nel comunismo, invece, lo Stato sarebbe diventato inutile
perché, una volta eliminata la lotta tra le classi, non ci sarebbe più stato
bisogno di repressione.
Tuttavia,
Lenin credeva che per arrivare al comunismo fosse necessaria una fase
intermedia, chiamata “dittatura del proletariato”. In questa fase, il Partito
comunista avrebbe dovuto guidare il processo rivoluzionario, perché, secondo
Lenin, la classe operaia da sola non aveva la consapevolezza e l’organizzazione
necessarie per fare una rivoluzione. Egli spiegava che solo un’avanguardia di
lavoratori più coscienti e preparati, organizzata nel Partito comunista, poteva
guidare il resto della massa verso il cambiamento.
Lenin,
però, abbandonò l’idea di una democrazia diretta, come pensata da Marx, dove
tutti i cittadini avrebbero partecipato al governo senza delegare
rappresentanti. Questo, secondo lui, non era possibile perché richiedeva un
alto livello di consapevolezza e partecipazione da parte di tutta la classe
operaia, cosa che non riteneva realizzabile. Pertanto, la “dittatura del
proletariato”, per Lenin, significava di fatto il potere politico concentrato
nelle mani del Partito comunista.
I
socialisti rivoluzionari e la “Terza internazionale”
Nella
socialdemocrazia tedesca, i socialisti rivoluzionari, ispirati da Marx e Lenin,
si scontrano con la maggioranza dei revisionisti e arrivano a separarsi. Una
figura importante di questo periodo è Rosa Luxemburg (1871-1919), una
pensatrice polacca che, come Lenin, crede nella necessità di una rivoluzione
proletaria per cambiare radicalmente economia e società. Tuttavia, Rosa non
condivide l’idea leninista di un partito comunista centralizzato, che secondo
lei rischia di trasformarsi in un’organizzazione burocratica dominante sulle
masse operaie, instaurando una dittatura non “del” proletariato ma “sul”
proletariato. Per Rosa, invece, è fondamentale una democrazia politica che
renda i lavoratori protagonisti del proprio destino.
Quando
scoppia la Prima guerra mondiale nel 1914 e la “Seconda Internazionale” si
scioglie per divisioni interne, Rosa si schiera contro la guerra. Fonda la Lega
di Spartaco, un movimento pacifista opposto al militarismo del Partito
socialdemocratico tedesco, e da questa nascerà poi il Partito comunista
tedesco.
Nel
1916 viene arrestata, insieme ad altri membri della Lega, per aver cercato di
organizzare uno sciopero internazionale contro la guerra, e condannata a due
anni di carcere. Durante la prigionia, scrive articoli come La
rivoluzione russa, in cui avverte dei rischi autoritari della rivoluzione.
Rosa Luxemburg viene uccisa brutalmente il 15 gennaio 1919 durante la
repressione di una rivolta operaia da parte dell’esercito inviato dal governo
socialdemocratico.
Nel
marzo 1919, su iniziativa dei bolscevichi, nasce la “Terza Internazionale”
(Comintern), con l’obiettivo di sostenere la creazione di partiti comunisti nel
mondo e diffondere la rivoluzione. Con la morte di Lenin nel 1924 e l’ascesa di
Stalin, però, la politica del Comintern cambia radicalmente: Stalin introduce
l’idea del “socialismo in un solo paese”, avviando uno sviluppo economico
forzato e imponendo un rigido sistema totalitario. Questo regime, lontano dal
comunismo immaginato da Marx, dura fino alla morte di Stalin nel 1953 e, in
parte, anche dopo, nonostante i tentativi di “destalinizzazione”. Migliaia di
oppositori vengono deportati nei gulag. Solo con Mikhail Gorbaciov, salito al
potere nel 1985, iniziano riforme profonde che porteranno alla fine della
Guerra Fredda, al crollo del muro di Berlino nel 1989 e alla dissoluzione
dell’URSS.
Antonio
Gramsci
Le
condizioni della rivoluzione in Italia
In
Italia, Antonio Gramsci, nato nel 1891 ad Ales in Sardegna, contribuì a fondare
il Partito Comunista Italiano nel 1921, in contrasto con la linea moderata dei
socialisti e con il sostegno del Comintern. Nel 1924 ne divenne segretario.
Trasferitosi
dalla Sardegna a Torino, Gramsci fondò nel 1919 la rivista L’Ordine Nuovo, che
affrontava il tema centrale del movimento comunista dell’epoca: creare in
Italia un’organizzazione del proletariato simile ai soviet russi, comitati
rivoluzionari formati dai lavoratori. A Torino, Gramsci vide nei “consigli di
fabbrica”, nati durante scioperi operai, un esempio di democrazia diretta e di
autogestione della produzione.
Gramsci
però pensava che le rivoluzioni non potessero essere “copiate” e che quella
italiana dovesse avere caratteristiche specifiche. Per lui, la rivoluzione
doveva unire la coscienza della classe operaia (fattore soggettivo) con la
crisi del capitalismo (fattore oggettivo). Credeva che il potere operaio non
potesse arrivare solo dal crollo improvviso del capitalismo, ma richiedesse un
lungo lavoro di preparazione, guidato dal partito rivoluzionario. Pur seguendo
l’idea marxista che la storia porti al superamento del capitalismo, Gramsci
dava grande importanza al ruolo attivo del partito. Accolse con entusiasmo la
Rivoluzione russa, vedendola come la prova che una rivoluzione poteva avvenire
anche in un paese poco industrializzato come la Russia. Quando l’esperienza dei
consigli di fabbrica finì, Gramsci capì che era indispensabile un partito
operaio per guidare il cambiamento. Nel 1926, fu arrestato dalle autorità
fasciste e condannato a vent’anni di carcere. Morì nel 1937, poco dopo essere
stato liberato.
Le
sue idee sono raccolte nei Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935
durante la sua prigionia a Turi, in Puglia. Questi quaderni non sono un’opera
sistematica, ma contengono riflessioni su politica, storia, filosofia,
letteratura e arte.
La
direzione culturale della società
Il
concetto di egemonia culturale è uno degli aspetti più interessanti del
pensiero di Antonio Gramsci. Con questo termine, Gramsci indica la capacità di
un gruppo o di una classe sociale di guidare la società sia dal punto di vista
morale che intellettuale. Secondo il filosofo, questa guida non si limita a
essere un effetto delle trasformazioni economiche, come sosteneva Marx, ma è un
elemento centrale e decisivo per mantenere il potere.
Gramsci
osserva che il sistema capitalistico nei paesi occidentali non è crollato, come
Marx aveva previsto, perché la borghesia (la classe dominante) è riuscita a
mantenere il controllo culturale sulla società. Questo controllo non si basa
solo sulla forza (polizia, esercito, prigioni), ma anche sulla costruzione di
un consenso attraverso istituzioni culturali come scuole, giornali, cinema,
Chiesa, sindacati e partiti. In questo modo, la borghesia ha creato un’alleanza
tra diverse forze sociali e politiche (chiamata blocco storico), che non solo
ha subordinato le altre classi, ma ha ottenuto anche il loro accordo.
Gramsci
sottolinea che le classi popolari rimangono oppresse finché accettano i valori
e le idee della classe dominante. Per cambiare questa situazione, il
proletariato deve costruire una propria egemonia culturale. Questo significa
creare una nuova visione del mondo che possa opporsi a quella della borghesia.
Per farlo, deve coinvolgere gli intellettuali, cioè filosofi, artisti e
studiosi, e formare una propria classe di intellettuali organici. Questi
intellettuali devono lavorare a stretto contatto con il popolo, capire i suoi
bisogni e trasformarli in un progetto politico capace di guidare la società.
Il
ruolo degli intellettuali e del Partito comunista
Per
Antonio Gramsci, gli intellettuali hanno un ruolo fondamentale. Devono essere
il cuore del Partito comunista, che ha il compito di formarli e sostenerli. Il
loro obiettivo è aiutare i lavoratori a sviluppare una consapevolezza di
classe, che non nasce in modo spontaneo ed è spesso indebolita dalla propaganda
della cultura dominante. Questa cultura diffonde una visione distorta della
realtà e spinge i lavoratori verso consumismo, competizione sociale ed egoismo.
Gramsci,
ispirandosi a Machiavelli, vede nel Partito comunista il “moderno principe”, un
soggetto capace di coinvolgere il mondo culturale per ottenere il consenso
della società. Tuttavia, per guidare l’intera società, il Partito comunista
deve creare un nuovo blocco storico, diverso da quello borghese. Qui entra in
gioco un tema caro a Gramsci: la questione meridionale.
Secondo
il filosofo, il proletariato può diventare classe dirigente solo unendo gli
operai del Nord con i contadini poveri del Sud. Questa alleanza è necessaria
per rompere il blocco agrario-industriale che domina in Italia e superare
l’egemonia culturale della Chiesa cattolica e della borghesia. Gramsci critica
il Partito socialista per non aver compreso l’importanza di questa questione e
per aver accettato teorie che consideravano i meridionali inferiori.
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