
Il contesto di vita
Arthur Schopenhauer nasce nel 1788 in una famiglia
benestante. La sua città natale, Danzica (oggi in Polonia), apparteneva
alla Prussia occidentale ed era un importante centro commerciale sul mar
Baltico. Il padre era un mercante capace, che riuscì a far crescere il
patrimonio di famiglia durante la Rivoluzione francese e l’ascesa di Napoleone.
Grazie alla sua situazione familiare privilegiata, Arthur
ha la possibilità di viaggiare e conoscere luoghi e culture diverse.
Tuttavia, queste esperienze non lo portano a seguire la strada del commercio,
ma accentuano il suo carattere introverso e una visione pessimista della vita.
Arthur prova disprezzo per la stupidità umana e riflette spesso su temi
profondi come la morte, l’eternità e la grandiosità
della natura, simili a quelli trattati da Leopardi nello Zibaldone.
Fin da giovane, Schopenhauer si sente insofferente verso
il mondo borghese in cui è cresciuto. Dopo la morte del padre nel 1805, questa
distanza diventa ancora più marcata. Sua madre, Johanna Trosiener, una
scrittrice di romanzi sentimentali, si allontana anch’essa dall’ambiente
mercantile e sostiene Arthur nello studio della filosofia e
dell’arte greca, che diventano la sua vera passione.
I modelli culturali
Durante gli anni di studio e formazione (1805-1818),
Schopenhauer sente il bisogno di chiarire la sua visione della vita,
soprattutto attraverso la filosofia. Platone lo affascina
perché risponde al desiderio di andare oltre il mondo materiale e raggiungere
il mondo delle idee. Anche Kant lo entusiasma, diventando il
suo principale punto di riferimento. Schopenhauer apprezza in Kant la critica
al realismo, cioè l’idea che le cose esistano e abbiano un senso
indipendentemente da chi le percepisce. Inoltre, condivide la convinzione di
Kant che l’uomo aspiri naturalmente alla metafisica, cioè a cercare
ciò che sta oltre il mondo visibile e mutevole, per raggiungere la vera essenza
della realtà, chiamata “noumeno” o “cosa in sé”. Un altro importante influsso
sul giovane Schopenhauer è la saggezza orientale delle Upanishad e
dei testi buddisti. Questi gli mostrano due cose: da una parte, la
natura passeggera e illusoria della realtà, dove tutto appare e scompare in
un flusso continuo; dall’altra, la possibilità di liberazione per
chi, liberandosi dalle illusioni, riesce a raggiungere una realtà eterna e
immutabile. Infine, Schopenhauer potrebbe aver richiamato temi e immagini
dell’Oriente anche per opporsi a Hegel, che considerava poco rilevanti per la
vera filosofia tutte le tradizioni precedenti ai Greci, incluse quelle
orientali.
La duplice prospettiva sulla realtà
Il filosofo Schopenhauer espone il suo pensiero principalmente nel libro Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). In quest’opera, voleva rivelare “la verità sul mondo vile e meschino” della filosofia tedesca, ma al momento della pubblicazione il libro non ebbe successo. Schopenhauer cerca di rispondere alla domanda “Che cos’è il mondo?” adottando due punti di vista:
- quello della scienza;
- quello della filosofia.
Questi due approcci portano a risposte
diverse.
Dal punto di vista scientifico, il mondo è una mia rappresentazione.
Invece, secondo la filosofia (che per Schopenhauer è il punto di vista più vero
e profondo), il mondo è volontà di vivere, cioè un impulso cieco e
ostinato che coinvolge tutti gli esseri, condannandoli alla sofferenza.
Il mondo come rappresentazione
Il superamento di realismo e idealismo
Il capolavoro di Schopenhauer inizia con la famosa frase
“il mondo è una mia rappresentazione”. Questo significa che il mondo,
così come lo conosciamo, dipende dalla nostra esperienza e percezione. Questa è
una verità evidente per tutti, anche se solo gli esseri umani sono consapevoli
di essa. Dire che il mondo è una mia rappresentazione vuol
dire che, come aveva già detto Kant, non possiamo sapere come sono le
cose in sé, ma solo come le percepiamo attraverso i nostri sensi e la
nostra mente. Per esempio, non posso sapere esattamente cosa sia un albero, ma
solo come appare ai miei occhi, come la sua corteccia si sente al tatto, e come
la mia mente interpreta queste sensazioni.
Schopenhauer dice che il mondo esiste solo nel
rapporto tra il soggetto (chi percepisce) e l’oggetto (ciò
che viene percepito), cioè nella rappresentazione. Quindi, il
soggetto e l’oggetto non possono esistere separati, ma sono due parti di una
stessa rappresentazione.
Partendo da questa idea, Schopenhauer critica sia il
realismo che l’idealismo. Il realismo sbaglia quando riduce il soggetto
all’oggetto, pensando che la realtà materiale esterna influenzi la nostra
percezione. L’idealismo, invece, sbaglia quando considera l’oggetto come una
creazione della mente, senza realtà indipendente. Per Schopenhauer, né
il soggetto né l’oggetto prevalgono sull’altro: la conoscenza nasce dalla
loro unione, come due aspetti inseparabili della rappresentazione.
In questo senso, Schopenhauer afferma che tutte
le cose sono “fenomeni”, cioè realtà che esistono solo nella relazione tra
il soggetto e l’oggetto e non hanno esistenza al di fuori di questa relazione.
Spazio e tempo come condizioni a
priori della conoscenza
Schopenhauer, dicendo che tutte le cose sono solo
fenomeni, segue l’insegnamento del suo maestro Kant. Kant aveva detto che l’unica
realtà che possiamo conoscere è quella fenomenica, cioè quella che appare
ai nostri sensi e che viene organizzata dalla nostra mente attraverso le forme
a priori di spazio e tempo e le categorie dell’intelletto.
Schopenhauer riprende queste idee, ma si concentra su tre
di queste forme a priori che Kant aveva individuato: spazio, tempo e causalità.
Secondo Schopenhauer, queste sono le condizioni soggettive che permettono alla
nostra mente di conoscere gli oggetti. In particolare, attraverso lo spazio e
il tempo organizziamo ciò che percepiamo, mettendo gli
oggetti in un ordine preciso nello spazio e nel tempo. Per esempio,
se vedo un amico che si avvicina lungo una strada in una giornata d’estate, per
capire la scena utilizzo queste forme a priori: posiziono gli oggetti nello
spazio (dove si trovano) e nel tempo (quando sta accadendo). Vediamo il
soggetto (il mio amico) che si distingue nel paesaggio, l’ora del mattino e il
percorso che sta facendo per venire verso di me. Non possiamo percepire o
conoscere nulla senza collocarlo in uno spazio e in un tempo specifici. Queste
forme aiutano a distinguere e a separare le cose, rendendole riconoscibili e
uniche.
Il principio di causalità
Gli oggetti, che il soggetto ha già “individuato” tramite
le forme di spazio e tempo, vengono poi ordinati dall’intelletto
umano attraverso la categoria della causa. Schopenhauer considera
questa come l’unica categoria fondamentale, e crede che le altre categorie di
Kant possano essere spiegate come manifestazioni particolari della causa.
Secondo Schopenhauer, tutta la realtà è una rete di
fenomeni collegati tra loro grazie al principio causale, che lui chiama anche “principio
di ragion sufficiente”. Questo principio si
presenta in quattro modi diversi:
- come principio del divenire, che spiega la relazione di
causa ed effetto tra gli oggetti naturali;
- come principio del conoscere, che regola il rapporto
logico tra premesse e conclusioni;
- come principio dell’essere, che organizza le connessioni
nello spazio e nel tempo e i rapporti tra oggetti geometrici e matematici;
- come principio dell’agire, che stabilisce la connessione
tra le azioni che compiamo e i motivi che le causano.
Per Schopenhauer, dunque, la causalità è alla base della
realtà fenomenica, cioè quella che percepiamo con i sensi. La realtà appare
come una serie di azioni reciproche tra le cose, e per questo
il mondo fenomenico, cioè il “mondo” che è la “mia
rappresentazione”, è governato da un determinismo rigoroso. In altre parole, è
un insieme di relazioni causali che esistono in relazione a un
soggetto che conosce.
Il carattere illusorio della realtà
fenomenica
Come Kant, anche Schopenhauer vede il mondo della
rappresentazione e della conoscenza scientifica, che è dominato dalla
causalità, come il mondo fenomenico. Tuttavia, mentre Kant considerava questo
mondo come l’unica conoscenza certa e oggettiva per l’uomo (perché basata sulle
categorie a priori della soggettività, che garantiscono necessità e
universalità), Schopenhauer lo vede come una dimensione illusoria e ingannevole.
Secondo lui, le forme a priori attraverso cui percepiamo la realtà sono come
vetri sfaccettati che distorcono la nostra visione delle cose.
Per descrivere il mondo fenomenico, Schopenhauer usa il
termine “maya”, che significa “illusione” o “magia”. Questo concetto arriva
dalla tradizione induista e si riferisce a un “velo” che nasconde la vera
essenza della realtà. Maya è un inganno che fa vedere agli esseri umani un
mondo che non possiamo dire che esista o che non esista. È come un sogno, un
riflesso del sole sulla sabbia che sembra acqua, o una corda che sembra un
serpente.
Il mondo della rappresentazione, secondo Schopenhauer, è
quindi fatto di apparenze, di immagini che sembrano seguire una logica e una
connessione, ma che in realtà sono evanescenti, come quelle che vediamo nei
sogni. Anche se i sogni non hanno l’ordine che vediamo nel mondo reale, sono
comunque esperienze simili a quelle che viviamo quando leggiamo un libro, che
può essere letto in ordine o sfogliato a caso.
Il mondo come volontà
Il corpo come chiave di accesso alla
verità
La domanda che nasce dalle teorie di Schopenhauer è la
seguente: esiste un modo per conoscere l’essenza della realtà, oltre il velo di
Maya? C’è una via per arrivare alla verità della vita e dell’esistenza, quella
“cosa in sé” che, secondo Kant, può essere pensata ma non conosciuta?
Schopenhauer risponde che, se l’uomo fosse solo un soggetto che conosce i
fenomeni tramite la conoscenza scientifica e la rappresentazione, non potrebbe
mai andare oltre. Tutto sarebbe limitato da queste categorie. Però, l’uomo è
anche un essere corporeo, e proprio nel corpo si trova la chiave per capire
l’essenza delle cose. Il corpo ha due aspetti: da un lato è un oggetto che
segue le leggi della rappresentazione e fa parte del mondo fenomenico;
dall’altro è il luogo in cui si manifesta una forza che non può essere ridotta
alla rappresentazione, una forza primitiva che sfugge a ogni causa: la volontà.
Nel corpo, attraverso le sue gioie e sofferenze, ciascuno
di noi sente che l’essenza del proprio io è la volontà di vivere, un impulso
forte e irresistibile che ci spinge a esistere e a fare, e che il corpo stesso
manifesta all’esterno. Per Schopenhauer, nel corpo e nell’esperienza diretta
che abbiamo con esso, c’è la possibilità di una conoscenza che va oltre la
rappresentazione e la conoscenza intellettuale. Questa esperienza intuitiva e
profonda permette di vedere oltre il velo di Maya e di avvicinarsi alla verità.
La volontà di vivere come essenza
dell’universo
Schopenhauer sostiene che tutte le azioni umane che
mirano a rafforzare l’individualità sono espressioni della “brama di vivere”,
che si manifesta nei nostri impulsi fisici. Per esempio, il desiderio di
mangiare e provare piacere per il cibo è legato al bisogno di mantenerci in
vita. Lo stesso vale per il desiderio sessuale, che è un’espressione della
volontà di vivere e garantisce la continuazione della specie. La soddisfazione
del desiderio sessuale va oltre il semplice istinto di sopravvivenza, poiché,
tramite la riproduzione, permette di estendere l’esistenza individuale oltre i
suoi limiti naturali. In questo senso, uomini e donne sono strumenti di questa
volontà, che agisce attraverso i loro bisogni e desideri per perseguire un
obiettivo cieco e irrazionale di auto-potenziamento.
Quando ci allontaniamo dalla “rappresentazione” del mondo
(la nostra percezione) e guardiamo oltre, scopriamo che la vera natura
dell’essere umano e di tutto ciò che esiste è la “volontà”, un desiderio di
vivere e di auto-conservazione. Questa volontà non riguarda solo gli esseri
umani, ma si estende e governa ogni cosa nell’universo, dalla più piccola alla
più grande. La volontà è ciò che fa crescere le piante, forma i cristalli,
orienta l’ago della bussola verso nord e causa la gravità. In altre parole, la
volontà è la forza fondamentale di tutto ciò che esiste. Schopenhauer descrive
questa volontà come qualcosa di inconsapevole, che precede la coscienza,
eterna, indistruttibile, e sempre uguale in tutti i fenomeni. È cieca, senza
uno scopo o un fine preciso, e si afferma solo per il desiderio di esistere.
La vita come continuo oscillare tra
desiderio e noia
Schopenhauer afferma che, poiché la volontà è l’essenza
del mondo, la vita diventa inevitabilmente dolore. La volontà è un impulso
cieco che cerca continuamente di potenziarsi, e questo impulso porta con sé il
desiderio, che nasce dalla mancanza di ciò che si vorrebbe avere. Gli esseri
viventi, in particolare gli esseri umani, sono naturalmente “carenti”, perché
la volontà si esprime sempre in modi finiti, che non permettono mai di
raggiungere una pace duratura. Perciò, l’uomo è destinato a una ricerca senza
fine della felicità, che genera continua inquietudine e sofferenza.
Essendo “carente”, l’essere umano può provare solo una
soddisfazione temporanea, che subito lascia spazio a un nuovo desiderio. Il
piacere è solo una breve pausa tra un dolore e l’altro, un attimo di sollievo
che non dura mai a lungo. In questo senso, per Schopenhauer, il piacere è
qualcosa di negativo, perché è solo la fine di un dolore e non una vera
soddisfazione.
Oltre al dolore, la vita è anche segnata dalla noia, una
sensazione di vuoto che si prova quando non c’è più il desiderio di ottenere
qualcosa. Così, l’esistenza è un continuo alternarsi tra desiderio e noia, con
il piacere che arriva come un breve e parziale sollievo.
Secondo Schopenhauer, il dolore è una condizione
universale. Tutto soffre: il fiore che appassisce senza acqua, l’animale che è
mosso dalla fame e diventa preda, il bambino che ha paura di essere
abbandonato, e l’anziano che rimpiange la vita che sfugge. Il dolore è tanto
più grande quanto maggiore è la consapevolezza della propria condizione, motivo
per cui gli esseri umani soffrono più di tutte le altre creature.
Le vie di liberazione dal dolore
dell’esistenza
Nonostante la triste realtà dell’esistenza, Schopenhauer
suggerisce che ci sia una via d’uscita. Quando una persona capisce che la vita
è dominata dalla volontà, può iniziare a cercare una sorta di “redenzione”.
Questo percorso è possibile solo se l’individuo riesce a sradicare la volontà
che guida ogni sua azione e sentimento. Ma come fare? Schopenhauer risponde che
la via per liberarsi dalla sofferenza passa attraverso l’arte, la morale e
l’ascesi, che aiutano a rompere la catena dei bisogni e dei desideri,
preparando così l’individuo a compiere il passo finale: annullare completamente
la propria volontà.
L’esperienza estetica
L’esperienza estetica, secondo Schopenhauer, può essere
una prima via di liberazione dal dolore della vita. Quando una persona osserva
un bel quadro, legge un libro interessante o ascolta della musica, può
dimenticare se stessa e il proprio dolore. In quel momento, si distacca dalla
catena degli eventi e dalla causalità che guida la vita quotidiana. Questo
accade perché l’arte è una forma di contemplazione che va oltre il tempo, lo
spazio e le cause: l’arte cerca l’idealità della cosa, non la sua realtà
fisica, e quindi non è legata al desiderio. È il desiderio, invece, che ci
imprigiona nel ciclo del dolore e della sofferenza. L’esperienza artistica ci
permette di vedere la realtà come ideale, e questo ci aiuta a rilassarci e a
fermare l’influenza della volontà.
Inoltre, l’esperienza estetica ha una funzione catartica,
cioè purificatrice. Schopenhauer, come Aristotele, dice che la tragedia,
rappresentando scene di grande sofferenza come l’amore, la morte, le guerre e
le ingiustizie, aiuta a vedere il dolore in modo universale, come una
sofferenza che riguarda tutti gli esseri viventi. In questo modo, il dolore
individuale si attenua, perché si capisce che è solo una piccola parte di un
dolore più grande che colpisce tutto l’universo. Guardando una tragedia da una
certa distanza emotiva, l’individuo può scaricare le sue emozioni negative e
“depotenziare” la propria volontà.
Infine, Schopenhauer attribuisce un ruolo speciale alla
musica. Secondo lui, la musica è completamente separata dal mondo fisico e
potrebbe esistere anche senza il mondo stesso. La musica esprime direttamente
la volontà, prima che si manifesti in forme concrete e visibili.
La morale
L’arte è importante perché ci aiuta a dimenticare le
preoccupazioni quotidiane e a calmare i nostri desideri, ma il suo effetto dura
poco e non ci libera definitivamente dalla sofferenza. Una liberazione più
duratura può arrivare dalla morale.
La morale, come l’arte, ci permette di andare oltre i
desideri che ci causano dolore, facendoci capire le conseguenze negative di
questi desideri. Però, mentre l’arte ci fa riflettere in modo personale e
distaccato, la morale richiede un impegno concreto per il bene degli altri. In
pratica, la morale ci aiuta a superare l’idea di essere individui separati, in
competizione gli uni contro gli altri. Ci insegna a vedere noi stessi come
parte di una volontà comune che unisce tutti.
Questo cambiamento avviene prima di tutto nel “negativo”,
evitando di fare del male agli altri, che è l’essenza della giustizia. La
giustizia si esprime nelle leggi che regolano il comportamento. Poi, si
realizza nel “positivo”, con la carità, cioè il desiderio di fare del bene agli
altri, che nasce dalla compassione. La compassione ci fa soffrire insieme agli
altri, e solo chi riconosce il proprio dolore in quello degli altri può
superare l’egoismo, sviluppando un amore disinteressato.
La giustizia e la carità, però, sono solo un primo passo,
perché fermano il conflitto tra le persone. Per liberarsi veramente, bisogna
negare la volontà di vivere stessa, e questo si ottiene solo con l’ascesi, un
cammino difficile e faticoso.
L’ascesi
L’ascesi è un processo in cui l’uomo cerca di domare i suoi istinti e desideri, perché considera la voglia di vivere come qualcosa di negativo. Per farlo, l’individuo deve rinunciare a sé stesso e alla sua volontà. La prima forma di questa volontà è l’istinto di procreazione, quindi l’uomo deve diventare casto, evitare i piaceri e dedicarsi alla pratica di virtù come umiltà, digiuno, povertà, sacrificio e rassegnazione. Queste pratiche sono simili a quelle della mistica cristiana, ma ci sono differenze importanti. Nel cristianesimo, l’ascesi ha come scopo l’unione con Dio, mentre per Schopenhauer la “salvezza” arriva con il raggiungimento del nirvana, un concetto della tradizione buddista che rappresenta l’esperienza del nulla. Questo “nulla” non è un’assenza totale, ma qualcosa che si comprende solo in relazione a ciò che nega. In particolare, il nulla per Schopenhauer è la negazione del mondo, con tutti i suoi fenomeni, la sua causa e la sua sofferenza. Per la persona che raggiunge questo stato, il nulla o nirvana non è la morte, ma una condizione di pace assoluta, in cui non ci sono più separazioni tra l’io e l’altro, tra soggetto e oggetto.
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