
Gli studi e l'originale interpretazione della fenomenologia
Martin Heidegger nacque nel 1889 a Messkirch e, dopo aver tentato il
noviziato presso i gesuiti, studiò teologia e scienze naturali all'Università
di Friburgo. Si avvicinò alla filosofia grazie a Brentano e Husserl,
conseguendo il dottorato nel 1913 e la libera docenza nel 1915.
Fu allievo e assistente di Husserl, che lo aiutò a diventare professore
all'Università di Marburgo (1923-1928), dove iniziò a distaccarsi dal
maestro. Nel 1927 pubblicò Essere e tempo, la sua opera
principale, che segnò un approccio originale alla fenomenologia.
Nel 1933, con l'ascesa del nazismo, Heidegger aderì al Partito
nazionalsocialista e divenne rettore dell'Università di Friburgo,
sostenendo inizialmente il regime e la sua ideologia. Tuttavia, nel 1934 si dimise
da rettore, opponendosi all'espulsione di colleghi contrari al nazismo,
e da allora si ritirò dalla politica, concentrandosi sulla filosofia e
l'insegnamento.
La presa di distanza dai temi esistenzialistici
Negli anni Trenta Heidegger sviluppò la sua cosiddetta «svolta»
(Kehre), passando dall'attenzione alle tematiche esistenziali e
antropologiche a quelle ontologiche. Nel 1947, con la Lettera sull'umanismo,
prese le distanze dalla filosofia umanistica di Sartre e negò che la sua fosse
una forma di esistenzialismo.
Nel 1946 fu vietato di insegnare dalla potenza
occupante francese e riprese l'attività solo nel 1950-51, prima con seminari
privati e poi ufficialmente all'Università di Friburgo. Da allora pubblicò
numerosi scritti basati sui suoi corsi e conferenze.
Nel 1955 abbandonò definitivamente l'insegnamento e
si ritirò nella sua baita nella Foresta Nera, partecipando solo a conferenze e
incontri. Morì a Friburgo nel 1976 e fu sepolto a Messkirch.
La domanda sull'essere
Heidegger, pur ispirandosi a Husserl, ritiene che la fenomenologia non
possa affrontare pienamente le contraddizioni dell'esistenza perché si limita
al problema del sapere e della conoscenza. Pur accettando l'idea
husserliana di intenzionalità della coscienza (la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa), Heidegger la interpreta come attività di un soggetto
concreto, immerso nel mondo, e non come una soggettività "pura" e
distaccata.
Il suo interesse si sposta quindi
alle strutture fondamentali dell'esistenza, ovvero il modo d'essere
umano nel mondo. Nella sua opera principale, Essere e tempo,
afferma che il problema fondamentale della filosofia è il chiarimento del significato
dell'essere, tema che differisce dalle domande usuali sulle cose
particolari.
L'essere non può essere
definito come un oggetto perché è l'orizzonte da cui emergono tutte le cose. La
domanda sull'essere va quindi intesa come ricerca del suo senso,
partendo dall'ente unico che se la pone: l'uomo, che si interroga sul
significato dell'essere, dell'esistenza e della realtà.
Il carattere propedeutico degli interrogativi sull'uomo
La filosofia di Heidegger è considerata la nascita delle filosofie esistenzialiste perché nei suoi primi lavori si concentra sull'uomo e sulla sua esistenza. Tuttavia, già in Essere e tempo l'analisi esistenziale è uno strumento propedeutico per la ricerca ontologica, che rimane il vero obiettivo del filosofo. La cosiddetta «svolta» nel pensiero di Heidegger non cambia l'oggetto d'indagine, cioè l'essere, ma rappresenta un nuovo modo di affrontarlo: non più partendo dall’esistenza umana, ma da un punto di vista ontologico più diretto. La trattazione segue questa divisione in due periodi: la prima fase, chiamata "analitica esistenziale", iniziata con Essere e tempo (1927), e la seconda fase post-bellica, in cui emergono temi come l'antiumanismo, il linguaggio, l'arte, il nichilismo e la tecnica.
L'uomo come "esserci" e possibilità
Il "primo" Heidegger sostiene che l'uomo ha un modo
unico di esistere, che si può analizzare fenomenologicamente. L'individuo è Dasein
(esserci), cioè sempre gettato in una situazione e caratterizzato dall'esistenza,
intesa come capacità di trascendere la contingenza. L'uomo è
condizionato, ma anche possibilità e responsabilità di scelta,
sempre proiettato in avanti nel suo essere. A differenza delle cose, la sua
esistenza non è fissa, ma libertà e possibilità.
Un'altra caratteristica fondamentale è il suo essere-nel-mondo,
che indica un legame esistenziale tra soggetto e mondo, diverso dalla relazione
conoscitiva di Husserl. Le cose appaiono all'uomo nella quotidianità
come strumenti utilizzabili in funzione dei suoi progetti. Questo mette
in crisi la visione tradizionale del mondo come insieme di oggetti
indipendenti, evidenziando invece che il mondo assume significato solo nel
rapporto con il soggetto, un soggetto già da sempre aperto a esso.
Il modo d'essere della comprensione
Heidegger individua nella comprensione
e nella cura i modi fondamentali dell'esserci nel rapporto col mondo. Il
mondo è visto come una totalità strumentale, in cui le cose non sono
isolate, ma sempre connesse in una rete di relazioni che ne definiscono il
significato. Ogni oggetto rinvia ad altri (ad esempio, un chiodo rimanda al
martello, al legno, ecc...), e ciò permette all'uomo di coglierne il senso
all'interno di un progetto esistenziale.
Le cose si comportano come segni,
e l'apertura dell'uomo al mondo è un'apertura a una totalità di significati.
L'esserci non è passivo ma dotato di precomprensioni e pregiudizi che
orientano la relazione con gli oggetti, rendendo la conoscenza un processo di interpretazione.
Questo processo è descritto come circolo
ermeneutico, in cui ogni significato viene colto alla luce di un contesto
più ampio che, a sua volta, viene modificato dall'esperienza stessa. La
conoscenza, quindi, non è meccanica né pura astrazione, ma un continuo
arricchimento e trasformazione reciproca tra soggetto e oggetto, mai concluso.
Il modo d'essere della cura
Heidegger descrive l'uomo come un essere concretamente gettato nel mondo,
in relazione costante con le cose e con gli altri. L'esistenza umana si
configura come cura, intesa sia come orientamento pratico verso il
mondo, sia come temporalità, ovvero come proiezione verso il futuro e
realizzazione di possibilità.
Questa progettualità dell'essere umano può esprimersi in due modi:
- autentico, quando l'uomo assume consapevolmente le proprie possibilità e sceglie responsabilmente la propria esistenza;
- inautentico, quando si adatta passivamente al mondo, rinunciando alla libertà e lasciandosi guidare dalla mentalità comune.
L'esistenza inautentica nasce dalla quotidianità ordinaria, in cui
l'individuo aderisce senza critica al contesto storico-sociale e accetta come
normali i significati e i valori trasmessi dall'ambiente in cui è nato. In
questa condizione, l'uomo non si sceglie, ma è dato a se stesso,
conformandosi al "si dice", "si fa", "si pensa".
Heidegger chiama questo fenomeno "deiezione", una caduta
nella banalità e nella superficialità, in cui la conoscenza si riduce a chiacchiera
e curiosità effimera, perdendo il senso profondo dello stupore filosofico
originario.
Il passaggio dell'esistenza autentica
Per Heidegger, l'accesso a un'esistenza autentica
avviene attraverso un particolare stato d'animo: l'angoscia, che – a
differenza della paura (rivolta a qualcosa di concreto) – si manifesta come senso
di smarrimento di fronte al nulla, alla possibile impossibilità di tutte
le possibilità dell'uomo.
L'angoscia mostra che, pur essendo l'uomo il fondamento dei
significati del mondo (in quanto progetto), egli stesso non ha un fondamento:
è un progetto gettato, che esiste senza averlo scelto. In questo modo
l'angoscia svela la verità dell'esistenza umana, cioè la sua finitudine,
il fatto che poggia sul nulla e che è inevitabilmente legata al tempo e alla
morte.
Attraverso questo confronto con la propria nullità, l'uomo
può prendere consapevolezza della propria libertà e scegliere autenticamente
sé stesso.
La «possibilità più propria» dell'uomo
Secondo
Heidegger, la morte è la possibilità più propria dell'uomo:
personale, certa e incondizionata. Essa non è solo la fine biologica della
vita, ma la condizione che dà senso all'esistenza, perché costringe
l'individuo a confrontarsi con la propria finitudine e a prendere
responsabilmente posizione rispetto alla propria vita.
Di fronte alla morte, l'uomo ha due possibilità:
- vivere autenticamente, riconoscendosi come essere-per-la-morte, cioè come essere finito e radicalmente libero, capace di scegliere sé stesso nelle sue possibilità, pur sapendo che nessuna è definitiva;
- rifugiarsi nell'inautenticità, evitando il pensiero della morte e
adattandosi passivamente al senso comune e alla quotidianità, illudendosi
di trovare senso nelle cose.
Solo anticipando
la morte e ascoltando la voce della coscienza, l'uomo può tornare a
sé stesso, superare la dispersione nel mondo e riconnettersi alla domanda
dell'essere. Vivere per la morte significa quindi scegliere in modo
consapevole e radicale, sapendo che ogni decisione è unica, non ripetibile, e
definisce il proprio modo di essere.
La temporalità costitutiva dell'esistenza
Per Heidegger, la
temporalità è il senso dell'essere dell’esserci: l'uomo non può
esistere al di fuori del tempo, poiché ogni sua azione o esperienza è possibile
solo nel tempo.
Le strutture fondamentali dell'esistenza umana si legano ciascuna a una dimensione temporale:
- la comprensione e la cura rimandano al futuro, come apertura progettuale;
- la deiezione (esistenza
inautentica) lo blocca nel presente anonimo e alienato;
- le situazioni affettive (come
angoscia e paura) lo connettono al passato, alla sua condizione di
gettatezza e infondatezza.
Heidegger sviluppa così l'idea che l’essere umano è costitutivamente temporale, ma la parte dell'opera Essere e tempo destinata a trattare pienamente il rapporto tra tempo ed essere è rimasta incompleta. Secondo l'autore, il linguaggio tradizionale, radicato nella metafisica, non era più adatto a esprimere le nuove intuizioni emerse. Questo segna il passaggio alla seconda fase del pensiero heideggeriano, più orientata a un'ontologia radicale che va oltre l'analisi esistenziale iniziale.
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